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Un Olimpo sul Mare Jonio. Anche a chilometro zero si può essere molto creativi

A nord Capo Colonna, con l’ultima testimonianza del tempio di Hera Lacinia che delimita il Golfo di Taranto. A sud Locri Epizefiri che dal vento marino prende il nome e che per mano del legislatore Zaleuco riconosceva la discendenza per linea femminile. A pochi passi la città romana di Scolacium, che tra i resti archeologici, un rudere bizantino e un frantoio ottocentesco ospita concerti e interventi d’arte contemporanea. Di fronte, un porticciolo turistico dal quale si dipana un lungomare flemmatico, dove si passeggia con indulgenza.
La costa jonica è estesa, quasi indefinita. Con la complicità di colori suadenti e morbidi non si capisce mai che ora è. Il tempo è eventuale, e si lascia scandire dai desideri basici che dai tempi della Magna Grecia sono rimasti intatti. Certo, magari non si può dire che i commensali “gettano le mani sulla mensa imbandita” come ai tempi di Odisseo. Ma l’edonismo magnogreco rimane saldo e combina ingredienti solidi e a modo loro grezzi con una sapienza alchemica che li sublima delicatamente.
Chilometro zero, si dice. Dopo un percorso variegato che dalla Sila è passato per la Sardegna, la Val d’Aosta e il Piemonte del “Cambio”, Claudio Villella ragiona, sperimenta e crea tenendo insieme l’esperienza lunga del territorio con la visione tenera, quasi ironica, di rielaborazioni che rispettano le stagioni, giocano con i contrasti e le assonanze, dialogano con avventori cosmopoliti. Si chiama “Olimpo”, non vi scorrono latte e miele, non vi si beve ambrosia, ma ci si sente molto vicini alla felicità.
Tempo lento, spazio generoso, sorrisi eleganti. L’esperienza di Calabria al Cubo, che ha guadagnato per tre anni la chiocciola di Slow Food, ha generato una strategia creativa che sembra emergere con naturalezza dall’eco-sistema calabrese. Senza dimenticare che, nonostante le oleografie incoraggiate dal turismo a buon mercato, alla fine della penisola non sono pochi i casi straordinari: il ginepro che si fa albero quando nel resto d’Europa è un arbusto; il bergamotto che innerva di sé i profumi più sofisticati; il cedro che viaggiava per tutto il continente in occasione delle celebrazioni ebraiche.
Così il gioco arcaico e avveniristico di Claudio Villella diventa un percorso di sorprese: il battuto di gambero rosso dialoga con le noci e con la mostarda di mela cannaruta incoraggiando la curiosità; le capesante adagiate sulla stracciatella mettono in gioco la propria fibrosità dolce con la struttura granulare e austera dei tartufi del Pollino; lo spaghettone di grani poveri calabresi si arricchisce morbidamente con un sugo di gallinella stufata al limone e con un crumble di bottarga, ricordando quanto una pietanza possa offrire stimoli tattili anche grazie a sapori quasi contraddittori; l’alalunga, cugino povero del tonno, dà il meglio di sé insieme a una tagliata di carciofi e melagrana.
Il magliocco, vino autoctono che dal greco antico prende il significato di ‘nodo tenero’ per la forma a pugno del suo grappolo, si combina magnificamente con un approccio semplice e incisivo. Nel nostro caso un blend di magliocco canino e greco nero: “Don Filippo” di Donnici, robusto e avvolgente quanto ci si può aspettare con queste pietanze. Villella dimostra di saper interrogare ingredienti e ricordi per assecondarne la vocazione guardando sempre in avanti. Così il polpo – che qui anche i ragazzini prendono con le mani – si combina con i porcini della Sila in agrodolce, una spuma di stracchino e l’acetosella; il risotto carnaroli della Piana di Sibari sceglie le noci e la robiola riprendendo il confronto con la coppia gambero rosso-mela cannaruta; il pescespada, troppo spesso reso stopposo da griglie frettolose, si immola avvolto dal guanciale in crosta di limone e mandorle su cipolle rosse di Tropea e petali di patate della Sila.
Il lavoro di Claudio Villella, spesso accompagnato dai suoi ricordi d’infanzia e da ammiccamenti che estraggono dal territorio le sue qualità più forti, offre una specie di mappa della Calabria e di intrecci tra località, saperi, tradizioni. Non manca la liquirizia (un prodotto DOP della regione) che insieme al mascarpone accompagna un gelato al limone e alla menta. E si comincia a ragionare sulle connessioni mediterranee: un tempo si viaggiava tanto, si scambiavano merci e idee, e in definitiva ci si sentiva tutti parte di uno stesso popolo, quella genìa del Mare in mezzo alle terre che diventava sempre più forte grazie alla propria capacità di ibridarsi e di fertilizzare la propria creatività.
È questa la scommessa dello chef, che nel suo “Olimpo” ospita tanti residenti quanti viaggiatori e racconta un’identità forse complessa ma orgogliosa di un territorio generoso e morbido. Non è un caso che lo stesso Villella enfatizzi la ‘leggerezza’ della propria ricerca, e che sia dedito con discrezione e sobrietà a progetti di inclusione sociale che mettano la cucina al centro di un percorso di accuratezza e condivisione che restituisce cittadinanza a tante fragilità adolescenziali. Da quello che si mangia e dai semplici racconti che Claudio Villella scambia con i commensali si capisce presto che il gioco della sperimentazione continua senza soste, e che tornando si troveranno nuove pietanze, senza sganciarsi dal territorio ma creando ulteriori relazioni tra ingredienti e saperi. Il gioco è la cosa più seria che si possa fare.

 

 

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